Top 5 della settimana: meglio dell’originale

Fino ad un paio di anni fa, quando un gruppo entrava nel mio radar, le cover erano la prima cosa che decidevo di ascoltare. L’inascoltabile Foxey Lady dei Cure, The House of the Rising Sun rilavorata e strapompata da Jimi Hendrix (“Hey! Io sì che so suonare la chitarra! Non ci credete? In quanti saprebbero fare un assolo di dodici minuti su un pezzo che ne durava originariamente quattro, eh? Eh?”), i mille fraudolenti saccheggi sul catalogo Beatles (dagli Oasis agli U2, dai Carpenters ai Deep Purple), fino ai Placebo che giocano a rifare i Pixies di Where Is My Mind? o il Syd Barrett di Dark Globe. Due anni dopo, non so esattamente perché ma odio le cover: un esempio su tutti? Prendete For No One dei Beatles – un’essenziale lettera d’amore e addio – e la sua versione per bifolchi innamorati cantata da Emmylou Harris in Pieces of the Sky. In questo astio generale, ci sono alcune eccezioni–poche, ma buone. Si tratta di quei pezzi che gli artisti sono riusciti ad adattare non solo al loro stile ma anche alla loro personalità, sino a rendere impossibile capire quale sia l’originale e quale la cover (Never Gonna Give You Up, dei Black Keys, è talmente a suo agio dentro Brothers che sembrava un loro pezzo). Rileggendo la classifica, meritava un posto anche Hey Jude rifatta da Wilson Pickett (assolo a firma di un certo Duane Allman) e Rocket Man dei My Morning Jacket, ma i posti, in fin dei conti, sono soltanto cinque.

BBC Sessions5. Travelling Riverside Blues – Led Zeppelin: nel lotto di blues tradizionali che alla fine degli anni sessanta vennero ripescati e aggiornati alle nuove sonorità hard rock/blues-rock, il nome di Robert Johnson torna prepotentemente (Crossroads dei Cream,  Love in Vain degli Stones,  Ramblin’ on My Mind dei Bluesbreakers). I Led Zeppelin però, che non erano certamente nuovi alle riproposizioni di standard blues, sono al loro solito un gradino più su della media, e la loro versione di Travelling Riverside Blues potrebbe tranquillamente essere scambiata per un out-take da Led Zeppelin II–c’è tutto quello che normalmente ci sarebbe in quell’album. Dalla poderosa sezione ritmica di Bonham e Jones all’aggressivo arpeggio in slide di Page alla rabbia cristallina nella voce di Plant.

Sid Sings4. My Way – Sid Vicious: dieci anni dopo la sua uscita, My Way non è più la confessione rassegnata di un uomo senza rimpianti e in punto di morte. Sid Vicious mette le mani su un classico del pop e ci stampa su una linguaccia. Le parole sono ancora quelle, ma adesso sono il testamento di una vita in bilico tra un eccesso e l’altro: addio arrangiamento orchestrale, benvenute distorsione e rabbia punk.

CSN [Box Set]3. Blackbird – Crosby, Stills & Nash: ciò che portò realmente al successo il trio formato da David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash furono le perfette armonizzazioni vocali che dominavano il loro album di debutto (così come il successivo Déjà Vu). Arrivati al primo concerto dal vivo (Woodstock, che non è certo come esordire al pub sotto casa),  Crosby, Stills & Nash decidono di puntare proprio sulle loro voci per conquistare il pubblico, e subito dopo Suite: Judy Blue Eyes si lanciano in un appassionato rifacimento di Blackbird: rimasta inedita fino al 1991, basta arrivare al ventesimo secondo di questa versione per capire perché superi quella dei Beatles.

Grace2. Hallelujah – Jeff Buckley: la versione di Leonard Cohen aveva un difetto principale–non c’era sincerità. Era una canzone con un grandissimo testo, eppure appesantita dall’arrangiamento gospel e dalla strumentazione tipicamente anni ottanta. L’operazione di recupero di Buckley non intacca minimamente l’aura sacra del pezzo; la sua voce limpida, dolce (mai melensa) eleva a qualcosa di molto superiore l’originale di Cohen, enfatizzando quei pezzi del testo (“But all I ever learned from love was how to shoot somebody who outdrew ya”) che il registro basso dell’autore originario lasciavano in secondo piano. Lo stesso dicasi per l’arrangiamento ricercato ma essenziale–Buckley trasforma Hallelujah in una confessione sul lato più oscuro dell’amore, senza dovere ricorrere ai giochetti à la Cure e R.E.M.

ElephantBrothers1. I Just Don’t Know What to Do with Myself – The White Stripes & Never Gonna Give You Up – The Black Keys: parlano tutte e due della fine di un amore (con risvolti diversi), derivano entrambe da pezzi soul (Burt Bacharach e Jerry Butler, rispettivamente) e ambedue riacquistano linfa vitale nella nuova veste garage rock di White Stripes e Black Keys. È il caso di due pezzi il cui potenziale era stato sepolto dietro gli arrangiamenti stucchevoli tipicamente anni sessanta (orchestra e sezioni di fiati). Quella che Jack White e Dan Auerbach conducono è un’operazione simile a quella di Buckley con Hallelujah, ma là dove il cantante di Anaheim immerge il pezzo nella sincerità con un nuovo arrangiamento velato di malinconia, White e Auerbach marchiano a fuoco le loro cover con una grintosa rabbia blues: chitarre distorte, accordi stoppati e linee di basso fuzzose a rimpiazzare le superflue sezioni di fiati, la batteria cavernosa di Carney e quella in climax di Meg White ad aggiornare i pezzi per il nuovo secolo.